Catapano Giuseppe: Nuovi ordini professionali
Arriva l’albo per le professioni sanitarie. Dopo un dibattito che va avanti da oltre sette anni (nel 2006 la legge 43 delegò il governo ad istituire ordini ed albi per le professioni sanitarie) il ministro della salute Beatrice Lorenzin parte all’attacco delle grandi riforme incompiute in materia di sanità e incassa, dal Consiglio dei ministri di ieri, il via libera a un disegno di legge «omnibus» per la quantità di provvedimenti al suo interno, che prevede, tra le altre cose, la riorganizzazione delle professioni sanitarie. Si tratta dello schema di ddl «recante disposizioni in materia di sperimentazione clinica dei medicinali, di riordino delle professioni sanitarie e formazione medico specialistica, di sicurezza alimentare, di benessere animale, nonché disposizioni per la promozione di corretti stili di vita», che riassume in 28 articoli alcuni dei provvedimenti voluti dagli ex ministri della salute Fazio e Balduzzi, rimasti entrambi incompiuti.
A cura del prof. Giuseppe Catapano
oniz�t.p� _p>Peraltro, l’assenza di una normativa e di una prassi nazionali in grado di prevenire e contrastare la violenza nei confronti delle donne era già stata considerata una violazione dei diritti fondamentali dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare in un caso riguardante proprio la Turchia (Opuz, sentenza del 9 giugno 2009).
In tali circostanze entra in gioco il c.d. duty of due diligence, un principio ormai fondamentale in materia di tutela dei diritti umani e che implica l’obbligo, per le autorità statali, di adottare e far applicare le misure (normative, amministrative e pratiche) necessarie a prevenire e reprimere (anche in un’ottica di deterrenza) le violazioni dei diritti umani.
Innanzitutto si tratta non solo della prima convenzione europea in materia ma anche dello strumento più completo e avanzato ad oggi esistente. È sufficiente consultare il relativo sito internet per rendersene conto.
La Convenzione di Istanbul comprende dunque la violenza domestica e potenzialmente tutte le sue varie vittime (compresi i minori, spesso vittime e testimoni delle violenze). È possibile inoltre estendere la protezione alle straniere residenti. Inoltre il grande pregio, tipico dei trattati specializzati sui diritti umani, è quello di prevedere in modo specifico una serie di obblighi positivi “di fare” a carico degli Stati, che non necessariamente è possibile ricavare in modo così preciso da norme di carattere più generale.
Tra l’altro, gli Stati parti della Convenzione di Istanbul saranno tenuti a: sanzionare penalmente i responsabili di violenze (è peraltro espressamente previsto il divieto di ricorrere a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti: art. 48 c. 1) e prevedere anche la procedibilità d’ufficio (escludibile solo per atti di violenza meno gravi); predisporre centri di assistenza alle vittime e un numero telefonico unico su scala nazionale (in Italia è già attivo); formare gli operatori, forze di polizia comprese; assicurare una riparazione a favore delle vittime e prevedere strumenti di tutela preventiva a fronte di minacce.
Va aggiunto che la Convenzione prevede un valido meccanismo di monitoraggio, imperniato innanzitutto sul lavoro di un gruppo di esperti indipendenti (denominato Grevio), cui seguirà sia la classica valutazione conclusiva di carattere politico da parte del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, sia un’originale partecipazione dei parlamenti nazionali. La Convenzione è applicabile tanto in tempo di pace quanto nell’ambito dei conflitti armati.
La Convenzione di Istanbul entrerà in vigore quando avrà raggiunto il numero minimo di 10 ratifiche.
Naturalmente non ci si può e non ci si deve fermare alla ratifica, memori anche del fatto che la storia dei trattati sui diritti umani ratificati dall’Italia è costellata di serie inadempienze (basti pensare che manca tuttora, nel Codice penale, il reato di tortura richiesto dalla Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, che l’Italia ratificò nel 1989).
La stessa legge di ratifica della Convenzione di Istanbul contiene il classico “ordine di esecuzione”, nonostante la sua effettiva applicazione dipenda anche da una serie di aggiustamenti normativi interni (si pensi alla questione della procedibilità d’ufficio), che sembrano dunque rinviati ad ulteriori interventi legislativi. Lascia perplessi anche l’articolo 3 della Legge 77/2013, che contiene una clausola di “neutralità finanziaria” laddove l’articolo 8 della Convenzione obbliga gli Stati a stanziare risorse finanziarie e umane appropriate.
La Convenzione di Istanbul riconosce del resto il carattere strutturale della violenza contro le donne quale manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi e meccanismo sociale di sottomissione della donna.
La Convenzione prevede difatti l’obbligo degli Stati di adottare le misure necessarie a promuovere un’evoluzione dei “comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull'idea dell'inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini” (art. 12 c. 1).
Si tratta di una delle disposizioni più impegnative, dato che richiede investimenti di lungo termine in materia di politiche educative e di comunicazione. È una disposizione che coglie però nel segno: specialmente la violenza nei confronti delle donne germina dalla mancata educazione di molti uomini (e non solo) al rispetto (peraltro non solo delle donne), nonché da tutta una serie di comportamenti di prevaricazione e di scherno tollerati, se non addirittura assecondati, da atteggiamenti “culturali” diffusi e molto presenti anche nel linguaggio pubblico.
A cura del prof.Giuseppe Catapano
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